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Tortura e trattamenti inumani e degradanti: nuovi orizzonti?

Nonostante i diversi riconoscimenti della proibizione della tortura in quanto diritto umano fondamentale, assoluto e norma di ius cogens, questa fattispecie continua ad essere violata e ad essere commessa in ogni angolo del pianeta, così come trattamenti inumani e degradanti sono perpetrati in modo costante. Se ciò non bastasse, spesso accade che tali condotte siano accompagnate da impunità per chi le commette. 


Come è noto, questo era anche il caso dell’Italia fino a qualche anno fa, dove, a causa della mancanza di un reato specifico, i soggetti autori di tali atti riuscivano quasi sempre ad evitare pene corrispondenti alla gravità delle azioni commesse. Per anni il nostro Paese ha invano tentato di resistere ai numerosi rimproveri ed alle varie strigliate da parte degli organi delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa che richiedevano di includere il reato nell’ordinamento interno. 


Nonostante la caparbietà delle diverse legislature, anche l’Italia si è però dovuta adeguare agli obblighi sovranazionali – soprattutto grazie alle sentenze Cestaro contro Italia (2015) e Bartesaghi Gallo ed altri contro Italia (2017) della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) – che hanno imposto la criminalizzazione interna di tale condotta. Ciò è avvenuto solamente nell’estate 2017 grazie alla Legge n. 110 che ha modificato il Codice Penale, aggiungendo in particolare gli articoli 613 bis e ter. L’introduzione del reato specifico nel c.d. Codice Rocco non ha avuto grandi effetti deterrenti sul verificarsi di atti di tortura, fenomeno ancora oggi attuale e che, purtroppo continua a venire commesso. 


Tra le pagine del libro con gli eventi più bui della nostra storia non possono che aggiungersi le torture nei confronti di minorenni che nei mesi scorsi sono avvenute all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni di Milano “Beccaria”, che irriverentemente prende il nome di uno dei Padri della proibizione della tortura, Cesare Beccaria. 


Questo continuo verificarsi di eventi sussumibili all’interno della fattispecie di tortura non fa altro che dimostrare non solo la necessità di difendere il reato già esistente ma anche di aumentarne la tutela. A questo fine è necessario utilizzare gli strumenti sovranazionali ed internazionali, unitamente a quelli interni, per ottenere una protezione omnicomprensiva per le vittime di queste condotte, capace di includere il maggior numero di violazioni possibili. In mancanza di nuovi strumenti normativi, una modalità interessante con cui ciò può avvenire è attraverso un’interpretazione capace di aumentare l’alveo delle possibili vittime e di racchiudere un maggior numero di atti e condotte all’interno delle fattispecie proibite, senza però sminuire l’importanza del reato. 


Da questo punto di vista, se per la tortura vi è una definizione internazionale precisa e caratterizzata da chiari e specifici elementi, lo stesso non si può dire riguardo alle pene e trattamenti disumani e degradanti. Infatti, l'Articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura (UNCAT) definisce tale fattispecie come caratterizzata da quattro componenti. Questi elementi, chiaramente evincibili dalla lettera dell’articolo, sono: 

(i) la condotta, che si caratterizza nell’infliggere dolore o sofferenze acute, sia fisiche che mentali; 

(ii) l’intenzionalità dell’atto; 

(iii) la presenza di un fine specifico, tra cui, ad esempio, l’ottenimento di informazioni o confessioni ovvero l’intimorimento della vittima; 

(iv) la qualità dell’autore della tortura: colui che la commette deve essere un agente della funzione pubblica ovvero una persona che agisce a titolo ufficiale. 


Diversamente da ciò, i legislatori internazionali si sono limitati a proibire le pene e i trattamenti crudeli, inumani e degradanti senza però darne una definizione, con la sola eccezione di escludere dalla fattispecie tutti quegli atti che incontrano i requisiti qualificativi di tortura. Nemmeno la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) aiuta a risolvere tale problematica, in quanto l'Articolo 3 si limita a stabilire che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. A complicare le cose vi è anche il fatto che la tortura sia comunemente considerata come una forma aggravata di trattamento crudele, inumano o degradante. 


A causa della mancanza di una chiara definizione, autorità giudiziarie ed altre personalità esperte del settore sono state chiamate ad interpretare queste diverse fattispecie al fine di garantire una protezione olistica alle vittime. La più nota distinzione è sicuramente quella fornita dalla Corte EDU che, basandosi su una scala piramidale fondata sull’intensità, considera la tortura come la fattispecie più grave. Scendendo di gravità, si trovano le pene e i trattamenti disumani, ed infine quelli degradanti. Ciononostante, la Corte EDU utilizza spesso l’espressione “trattamenti disumani e degradanti” quasi come fosse un unicum, annacquandone la distinzione. Non diversamente, dalla lettera del nuovo articolo sembra che la legislazione italiana non tratti i trattamenti disumani e degradanti come figli di un Dio minore rispetto alla fattispecie di tortura, ma, al contrario, pare equipararli. 


Seppure in ambito interno e penale la mancanza di una definizione spesso possa creare tensioni con il principio di legalità, quando si parla di diritti umani, ciò può essere utile per ampliare la tutela sulla base delle necessità moderne. Non troppo diversamente da ciò opera la Corte EDU che, considerando la Convenzione come uno strumento vivente, ne interpreta i diritti alla luce del contesto e delle condizioni attuali. A livello internazionale, con lo stesso obiettivo di tutelare le vittime di violazioni di diritti umani, operano anche i Relatori Speciali delle Nazioni Unite che, contribuendo allo sviluppo di standard internazionali sui diritti umani, spesso propongono innovazioni nell’interpretazione delle fattispecie di loro competenza. Ad esempio, ciò hanno fatto Manfred Nowak e Nils Melzer, due tra gli ultimi Relatori Speciali sulla Tortura ed altri Trattamenti Crudeli, Inumani e Degradanti. Durante i loro mandati hanno proposto interpretazioni creative del diritto umano di loro competenza, capaci non solo di ampliarne la tutela, ma anche l’alveo delle possibili vittime e situazioni in cui la tortura e altri trattamenti inumani si possono verificare. Nonostante il mandato di questi organismi sia limitato alla tortura come diritto umano e non come crimine internazionale né tantomeno come reato interno, le loro interpretazioni possono avere un’influenza anche in ambito domestico.  


Di particolare interesse sono le proposte interpretative di Nowak che, differenziandosi dalle posizioni europee, non considera l’intensità della sofferenza inflitta quale fattore distintivo dirimente tra tortura ed altri maltrattamenti, ma la finalità, l’intenzione dell’autore e la situazione di impotenza (powerlessness) in cui si trova la vittima. Tra i vari esempi che propone vi sono anche le situazioni in cui agenti di polizia hanno facoltà di utilizzare la forza, come ad esempio durante le manifestazioni. In questo caso viene indicato che, qualora una persona si trovi in una situazione di impotenza e sotto il controllo de facto di un’altra, l’uso della forza possa ammontare a trattamento crudele o inumano. 


Ulteriori casi in cui la fattispecie appena menzionata può verificarsi sono la violenza domestica e le più “classiche” condizioni detentive caratterizzate da sovraffollamento ed altri deficit strutturali. Successivamente, sulla base di questa interpretazione, Melzer ha prodotto un Report che cerca di chiarire il rapporto tra tortura e trattamenti inumani, in particolare in quelle situazioni in cui viene fatto uso della forza in contesti non-custodiali. Queste novità chiariscono il suddetto rapporto in due ambiti in particolare: violenza domestica e in caso di uso della forza durante manifestazioni. La seconda è quella che verrà esaminata nel dettaglio, anche in comparazione con la definizione del reato a livello interno. 


Prima di chiarire la differenza tra la tortura e le altre forme di maltrattamenti, Melzer propone vari esempi di sentenze emanate da parte della quasi totalità degli organi sovranazionali e regionali con giurisdizione riguardo questa proibizione, al fine di dimostrare il consenso in ambito internazionale nel non limitare tortura e altri trattamenti ai contesti detentivi. 


Ciononostante, l’interpretazione proposta, seppur generata da queste sentenze, va decisamente oltre, aggiungendo elementi ulteriori. Una volta stabilita la possibilità di violare il divieto di tortura e degli altri comportamenti illeciti in contesti non-custodiali, viene indicato che la giurisprudenza suggerisce che ciò sia strettamente legato ai principi che regolano l’uso della forza da parte di agenti statali. Questi sono i principi di legalità, necessità, proporzionalità e di precauzione. Pertanto, in tali contesti, per determinare quando si è di fronte ad un trattamento crudele, inumano o degradante – soglia minima da raggiungere per una violazione – è necessario verificare che l’atto sia in linea con i principi inerenti all’uso della forza. In particolare, quando la forza supera il limite di ciò che è necessario e proporzionato per ottenere un fine legittimo, è da considerarsi una violazione, a prescindere dall’intenzionalità o meno del fatto. 


Considerata in modo diverso - e più grave - è invece la situazione in cui dolore e sofferenza sono inflitti intenzionalmente nei confronti di una persona in stato di impotenza. In questo contesto, dolore e sofferenze sono strumentalizzati al fine di ottenere un obiettivo specifico, come la coercizione, intimidazioni e punizioni. La situazione di impotenza è definita come controllo fisico o equivalente da parte dell’agente, e in cui la vittima abbia perso la capacità di resistere o di scappare dall’inflizione del dolore o della sofferenza. Tali atti raggiungerebbero la soglia prevista per la commissione di tortura. Inoltre, la strumentalizzazione del dolore o della sofferenza unitamente all’impotenza della vittima sono indicati essere la vera essenza di questa fattispecie, nonostante la definizione della UNCAT.


Pertanto, ogni uso extra-custodiale della forza che prevede l’inflizione intenzionale del dolore o sofferenza nei confronti di una vittima impotente con un particolare fine viene considerata una forma aggravata di trattamento inumano, a prescindere da valutazioni inerenti all’uso legittimo della forza, necessità e proporzionalità o dalla definizione inserita nei trattati. Ciò sembrerebbe indicare la presenza di una più ampia definizione di queste fattispecie a livello consuetudinario, non limitata a quella inserita nell’Art. 1 della UNCAT. 


Tale interpretazione potrebbe essere rilevante anche a livello interno, in particolare se applicata in contesti di operazioni di ordine pubblico o in caso di  manifestazioni, in quanto anche in tali ambiti si potrebbero verificare atti di tortura o, più verosimilmente, di trattamenti disumani e degradanti. Tale conclusione potrebbe naturalmente anche riguardare l’Italia. La definizione interna del reato non sembra nemmeno creare troppi problemi a questa interpretazione. 

Il primo elemento a favore non può che essere l’aver eliminato la qualifica dell’agente statale come parte integrante della tortura ed aver qualificato il reato come comune. Ciò, infatti, implicitamente prevede che possa avvenire anche in contesti extra-custodiali. La possibilità che questa venga commessa da unə agente statale però non è scomparsa del tutto, ma limitata all’aggravante del secondo comma. Inoltre, sono stati fatti venire meno i motivi specifici che caratterizzano la commissione di tortura a livello internazionale, strettamente interconnessi alla figura dell’agente statale. 


Viene inoltre indicato che la vittima si debba trovare in determinate situazioni, tra cui quella di minorata difesa, che sembra proprio poter rientrare nella condizione di “powerlessness” indicata dai Relatori Speciali. Infine, come anticipato, il legislatore italiano sembra equiparare i trattamenti disumani e degradanti alla fattispecie di tortura. O meglio, sembra considerare che la tortura possa avvenire anche attraverso un solo atto lesivo, qualora questo comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona (Cass. Pen. n. 47079/2019). L’ultimo punto, implicitamente, abbassa la soglia prevista per la qualificazione di tortura e la pone sullo stesso piano degli altri trattamenti disumani. 


Seppure questa definizione interna si discosti molto da quella internazionale, d’altro canto potrebbe essere utile per considerare la presenza di tortura e altri trattamenti inumani in ambito extra-custodiale. Infatti, seguendo le indicazioni del Relatore Speciale, se l’intensità della sofferenza non è l’unico elemento dirimente, così come non lo sono gli elementi della UNCAT, allora è chiaro che si possa considerare che questa violazione possa essere commessa in tutti quei casi, tra cui le manifestazioni, in cui i principi inerenti all’uso legittimo della forza non siano rispettati. 


Ad esempio, dalle ricostruzioni degli eventi, ciò sembrerebbe proprio quanto accaduto a Pisa il 23 febbraio scorso. L’uso della forza sembra aver ecceduto ciò che era necessario e proporzionale per ottenere l’obiettivo legittimo preposto. Quest’ultimo sembrerebbe essere stato individuato nell’impedire il passaggio della manifestazione, limitandone l’ingresso in Piazza dei Cavalieri. In primo luogo, in tale contesto sembra difficile armonizzare il divieto di entrare nella Piazza come motivo legittimo, ma qualora questo venisse comunque valutato positivamente, ci sarebbe lo stesso una violazione del principio secondo il quale si debbano prendere tutte le precauzioni necessarie nella pianificazione e preparazione delle operazioni di polizia. Infatti, qualora l’obiettivo fosse stato evitare l’ingresso nella Piazza, la polizia non avrebbe certamente dovuto chiudere le persone manifestanti “ad imbuto” in una sola via, come si evince dai numerosi video e, peraltro, riportato dalla lettera aperta dei docenti del Liceo cittadino, sotto i cui occhi è avvenuto. 


Va sottolineato che secondo l’interpretazione di cui sopra, le condotte ammonterebbero “solamente” a trattamenti disumani e degradanti e non potrebbero raggiungere la soglia della tortura, in particolare perché non è stata persa la capacità di resistere o scappare dall’inflizione del dolore o della sofferenza. Questo ultimo elemento, però, non è necessario per considerare la presenza di trattamento disumano o degradante, che richiede solamente che l’uso della forza ecceda ciò che è necessario e proporzionato in quelle circostanze, e rispetto all’obiettivo legittimo preposto. Nel caso in esame, metodi diversi, e sicuramente meno violenti, avrebbero dovuto essere utilizzati per evitare che lɜ studenti, in gran parte minorenni, potessero entrare nella Piazza. Facendo un parallelismo con il diritto interno, avendo la legislazione abbassato la soglia per sussumere un atto all’interno del reato di tortura e non avendo distinto i vari comportamenti illeciti con reati differenti, il limite previsto per il reato di tortura verrebbe considerato raggiunto anche qualora in realtà vi sia “solo” un trattamento disumano e degradante. Tale limite sarebbe raggiunto qualora la condotta comporti un trattamento disumano e degradante che, applicando l’interpretazione di Melzer al caso concreto, si è certamente verificato. 


La proibizione di tortura e trattamenti disumani non si limita ad imporre solo obblighi negativi in capo allo Stato – che per lo più riguardano l’astensione dal commettere tali atti – ma anche obblighi positivi. Tra questi obblighi corollari, vi sono soprattutto quelli di adottare misure legislative, amministrative o giudiziali al fine di prevenire atti di tortura e di trattamenti disumani o degradanti. Tale obbligo non distingue tra le diverse fattispecie e, pertanto, risulta ugualmente applicabile sin dalla commissione di maltrattamenti. Ciò potrebbe essere rilevante per due motivi. Il primo riguarda il fatto che, se le fattispecie in esame venissero effettivamente intese alla luce dell’interpretazione di Melzer, gli obblighi aggiuntivi scatterebbero anche in caso di uso della forza eccessivo durante le manifestazioni. Da ciò la seconda conseguenza: gli Stati, tra cui l’Italia, si troverebbero di fronte all’obbligo di prevenire tali atti tramite l’applicazione di misure preventive. Tra queste, si potrebbe annoverare l’obbligo di adottare i famigerati codici identificativi per il personale di polizia o le body-cams, come avviene in gran parte d’Europa. La speranza, seppure scarsa, sarebbe di vedere ciò avvenire prima che si verifichino altri eventi come quelli che hanno portato all’introduzione del reato di tortura. 


Con la definizione interna del reato, forse si pensava di limitare i danni e tutelare l’operato delle forze dell’ordine, in particolare eliminandone la qualifica come reato proprio, ma così facendo si potrebbe invece aver ottenuto il risultato opposto. Di questo sembrerebbero essersene accorti anche alcuni degli ostruzionisti originari. Sono infatti tristemente note le continue richieste di coloro che cercano di abolire questo reato dopo nemmeno dieci anni dalla sua entrata in vigore, in quanto limiterebbe l’operato delle forze dell’ordine. Queste critiche sembrerebbero basarsi proprio sull’interpretazione dei Relatori Speciali sopra menzionati. Infatti, alcune delle argomentazioni addotte si fondano sul fatto che tale reato potrebbe configurarsi anche in quei casi in cui le forze di polizia hanno diritto ad usare la forza, incluse le operazioni di ordine pubblico. Ciononostante, ciò che sembra ostinatamente mancare da queste valutazioni è che anche l’uso della forza ha delle regole e che queste siano già applicabili. Da un punto di vista logico risulta difficile capire come delle regole già presenti e che devono essere rispettate da diverso tempo possano limitare l’operato delle forze dell’ordine che, proprio sulla base di queste, già agiscono. 


Se, dopo aver letto questo articolo e quest’ultima notizia, a qualcuno sembrasse strano che internamente si cerchi di limitare l’interpretazione dei massimi esperti mondiali nel settore che hanno il compito di contribuire all’avanzamento dei diritti umani a livello globale, basti pensare che l’Italia per quarant’anni è stata oggetto di pronunce a causa della mancanza del reato di tortura, nonostante la presenza di un obbligo internazionale volontariamente sottoscritto e le continue condanne.

Come scrisse qualcuno, “Ai posteri l’ardua sentenza”.


A cura di Michele Scolari


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