Quale futuro per le specie a rischio di estinzione?
Il caso JJ4: la vicenda giudiziaria
Il 26 maggio il Tar di Trento, con ordinanza N. 00068/2023 REG RIC, ha accolto la domanda cautelare proposta da diverse associazioni animaliste (tra le quali LAV, ENPA e OIPA) di sospensione provvisoria del provvedimento di abbattimento degli orsi JJ4 e MJ5 fino al 27 giugno.
Entro quella data, il Tar ha stabilito che le associazioni coinvolte e il Ministero dell’Ambiente devono presentare un progetto di trasferimento come alternativa all’abbattimento. Al momento, le ipotesi più probabili riguardano lo spostamento degli animali in un santuario in Germania, in Romania o in Giordania. I fatti sono ormai noti a chiunque: il 5 aprile scorso il runner 26enne Andrea Papi è stato ferito a morte dall’orsa JJ4 nei boschi sopra Caldes, comune della Val di Sole (provincia di Trento). Confermata l’aggressione dell’orso dall’autopsia, il Presidente della provincia autonoma di Trento ordina l’abbattimento dell’animale incriminato, insieme a quello di un altro orso, MJ5, definito anch’esso ‘problematico’. Alla base di tale decisione, l’applicazione delle misure previste dal PACOBACE (documento recepito da tutte le Amministrazioni territoriali delle Alpi centro Orientali, dal Ministero dell’Ambiente e da ISPRA e rappresentativo della formale politica dello stato italiano in materia di conservazione e gestione dell’Orso nelle Alpi), in materia di abbattimento di animali considerati ‘pericolosi’. Accogliendo il ricorso di LAV, ENPA, LEIDA e OIPA, il Tar di Trento sospende i provvedimenti di abbattimento degli animali, dando così inizio ad una vicenda giudiziaria che si concluderà, come stabilito dal Tar nell’ordinanza N. 00068/2023 REG RIC, con l’udienza di merito fissata per il 14 dicembre.
Tra le contestazioni del Tar al provvedimento d’uccisione figurano la mancata adozione da parte dell’amministrazione locale di una serie di provvedimenti funzionali alla conservazione gestione della fauna alpina minacciata dall’estinzione – previsti anch’essi dal piano PACOBACE – da applicare in via preventiva per garantire un’adeguata e sicura convivenza tra essere umano e animale, scongiurando il rischio di incidenti – nonché i conseguenti provvedimenti di abbattimento, misure eccezionali da adottare in ultima istanza.
In particolare, il Tar fa presente l’inadeguatezza delle attuali condizioni del centro faunistico del Casteller, così come il mancato funzionamento del monitoraggio telematico (‘radiocollare’), necessariamente da applicare per garantire un effettivo controllo delle zone interessate dalla conservazione della fauna a rischio. Questo è il caso, infatti, della Provincia di Trento, che dal 1996 ospita un progetto di ripopolamento dell’orso bruno nel Brenta denominato ‘Life Ursus’, finanziato nel 1999 dall’Unione Europea e finalizzato alla ricostituzione di un nucleo vitale di orsi nelle Alpi Centrali.
Il caso JJ4: una prospettiva internazionale
Da settimane al centro della cronaca e del dibattito politico, ci sembra che la vicenda si presti ad una serie di riflessioni di ben più ampio respiro relative, in particolare, ai risvolti della questione sotto il profilo del diritto internazionale.
Inclusa nell’agenda delle Nazioni Unite per la tutela dell’ambiente sin dagli anni Novanta, la necessità di stabilire una buona convivenza tra essere umano e natura, salvaguardando la biodiversità, è al centro della Convenzione sulla diversità biologica sottoscritta nel 1992 e ratificata ad oggi da 196 Stati (tra i quali l’Italia, con la Legge n. 124 del 1994.
Ribadendo la necessità di tutelare la diversità biologica in nome della sua importanza ai fini dell’evoluzione e del mantenimento della vita nella biosfera, il trattato richiama la responsabilità degli Stati Parte della conservazione degli ecosistemi e degli habitat naturali presenti sul proprio territorio. Questo, soprattutto, “ricostituendo le popolazioni di specie vitali nei loro ambienti naturali”, impedendone il depauperamento provocato dalle attività umane.
Per raggiungere tale obiettivo, la Convenzione sulla diversità biologica stabilisce una serie di misure necessariamente da implementare sul territorio degli Stati, che sono tenuti a sviluppare strategie, piani o programmi nazionali per la conservazione della biodiversità. In particolare, il trattato chiede che le parti contraenti istituiscano sistemi di zone protette o zone di misure speciali per conservare la diversità biologica (art. 8, lett. a), promuova la protezione degli ecosistemi, degli habitat naturali e delle specie che li abitano (art. 8 lett. d) facendo “ogni sforzo affinché si instaurino le condizioni necessarie per assicurare la compatibilità” tra la le attività umane e la biodiversità, che non deve essere in nessun modo sacrificata in nome della sua importanza per l’intera umanità.
Costituendo a tutti gli effetti degli obblighi di natura internazionale, le disposizioni del trattato acquistano ancor più rilievo se le si inserisce nel contesto del piano d’azione stabilito dalle Nazioni Unite per la tutela dello sviluppo sostenibile e dei diritti delle generazioni future, anch’esso a cuore all’organizzazione dalla fine degli anni Ottanta e ufficialmente “consacrato” nel 2015 con l’adozione, da parte dell’Assemblea Generale, dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (“Agenda 2030”).
Richiamando l’obiettivo comune di “un mondo in cui l’umanità vive in armonia con la natura e in cui la fauna selvatica e le altre specie viventi sono protette” (preambolo, para. 8) e riconoscendo la necessità di uno sviluppo economico e sociale che garantisca la conservazione di biodiversità, ecosistemi e fauna selvatica (preambolo, para. 33), l’Agenda 2030 si sofferma sull’importanza di proteggere le specie marine e terrestri in particolare agli Obiettivi 14 e 15, dedicati rispettivamente alla conservazione degli ecosistemi marini e terrestri. Allo stesso modo, l’importanza di garantire agli animali adeguate condizioni di vita è richiamata dall’Obiettivo 3 (dedicato alla tutela del benessere collettivo), dall’Obiettivo 11 (per città ed insediamenti umani sostenibili) e dall’Obiettivo 12 (per un consumo ed una produzione responsabile).
È anche alla luce di tali evidenze che, negli ultimi anni, la comunità internazionale ha riscontrato la progressiva formazione di una nuova ‘coscienza animalista’ che insiste sull’importanza di rafforzare, nei territori degli Stati, la tutela degli animali a rischio d’estinzione o di trattamenti degradanti. Ne sono la prova il recente rigetto, da parte dell’UNESCO, della candidatura della Spagna per l’iscrizione della corrida nella lista del patrimonio culturale immateriale stabilita dalla Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, così come la petizione promossa da diverse organizzazioni internazionali per l’iscrizione nella lista del patrimonio culturale dell’umanità di cui alla Convenzione UNESCO per la protezione del patrimonio mondiale del 1972 delle specie di animali a rischio d’estinzione.
È proprio in merito a questa necessità di preservare la fauna che rischia di scomparire che l’ordinamento internazionale, e in particolare le Nazioni Unite, hanno richiamato l’attenzione degli Stati. Attraverso il Report del 2019 elaborato per l’organizzazione dall’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), l’ONU ribadisce infatti come la biodiversità non sia mai stata messa in repentaglio come negli ultimi anni, e come vi siano circa un milione di animali e piante a rischio d’estinzione. Tale dato si è poi, ulteriormente aggravato negli ultimi anni: come si vede dalla Red List delle specie a rischio curata dall’International Union for the Conservation of Nature (IUCN), infatti, gli animali in pericolo sono notevolmente aumentati nel biennio 2021/2022, e i numeri non promettono di migliorare nel 2023.
È proprio alla luce di queste evidenze che, sostenuti anche dalle sempre più numerosi voci del diritto internazionale che promuovono un nuovo approccio ai diritti degli animali, da considerare al pari degli esseri umani e dell’ambiente nella ricerca di un welfare collettivo, diversi Stati che da secoli convivono con specie a rischio d’estinzione hanno messo in atto politiche attive volte alla conservazione di tali animali, nonché alla convivenza pacifica tra essere umano e natura – anche nel caso in cui si tratti di specie considerate ‘pericolose’. È il caso, ad esempio, dell’Environment Protection and Biodiversity Conservation Act adottato dal governo australiano nel 1999, che obbliga lo Stato ad adottare alcune specifiche misure per garantire un’adeguata conservazione di squali e altre specie pericolose, minimizzando i rischi di contatto con l’essere umano e prevedendo pene severe per coloro che violano tali disposizioni.
Allo stesso modo, una politica intransigente volta a tutelare la fauna selvatica è stata elaborata dal Canada, che vanta un’esperienza pluridecennale nella tutela delle specie che abitano i boschi del territorio, spesso a stretto contatto con comunità e aree urbane. In particolare, la legislazione canadese in materia, che fa capo al Canada Wildlife Act, si concentra proprio sulla necessità di conservare gli ecosistemi popolati da questi animali (tra i quali spiccano, ad esempio, lupi ed orsi), regolando precisamente l’accesso umano in tali aree geografiche, proprio per scongiurare il rischio di un eventuale attacco. Applicando questa politica, le autorità canadesi hanno ottenuto un buon risultato nello stabilire un equilibrio tra la conservazione delle specie a rischio e la necessità di tutelare la sicurezza pubblica: come riportato da associazioni coinvolte nella tutela del pianeta, in Canada ogni anno la probabilità di essere attaccato da un orso è tendente allo zero, essendo paradossalmente molto più probabile morire, anche in un contesto urbano, aggrediti da un cane. Questo, a prescindere dall’elevatissimo numero di orsi presenti sul territorio canadese: le stime del governo canadese contano circa 600.000 orsi diffusi sul territorio, distribuiti nei numerosi parchi faunistici del Paese.
Quale futuro per le specie a rischio in Italia?
Tornando a noi, questi dati fanno riflettere, se si pensa all’approccio adottato riguardo alla vicenda di JJ4 dalle autorità trentine. Oltre a firmare la condanna a morte per JJ4 e gli altri orsi ‘problematici’, infatti, il Presidente della provincia autonoma di Trento ha dichiarato ferma volontà di ridurre, addirittura dimezzando, il numero di orsi presenti sul territorio, che ammonta attualmente a circa 100 esemplari (circa la metà degli orsi totali stimati in Italia). Tutto ciò, senza mettere in discussione l’efficacia delle misure previste dal piano PACOBACE, nonché la loro effettiva applicazione sul territorio trentino (ricordiamo, infatti, come JJ4 e gli altri gli orsi ‘pericolosi’ sarebbero stati monitorati tramite un radiocollare scarico, e come il ‘centro di recupero per la fauna alpina’ del Casteller sia stato ritenuto inadeguato al suo scopo dalle autorità giudiziarie). È proprio alla luce di questi fatti che, il 29 maggio, la LAV ha annunciato di aver presentato due nuovi ricorsi al Tar di Trento per “contrastare le Linee guida provinciali per la gestione e l’uccisione degli orsi e il documento Ispra-MUSE sugli orsi etichettati come problematici”. Questi ricorsi si sommano a quello già presentato dall’organizzazione per chiedere l’annullamento delle Linee guida elaborate dalla provincia di Trento nell’ambito del piano PACOBACE per l’abbattimento degli animali pericolosi, poiché mancanti di qualsiasi riferimento alla programmazione delle misure di prevenzione. Secondo la LAV, infatti, è proprio nel quadro normativo adottato dalle autorità trentine bisogna che si ritrovano le cause della vicenda di JJ4. Trattandosi di una serie di misure piuttosto generiche, in effetti, esse non sembrerebbero in grado di scongiurare incidenti come questo, creando anzi la base per nuovi accadimenti simili, che porterebbe di fatto soltanto all’identificazione di nuovi orsi ‘problematici’ e alle conseguenti ordinanze d’uccisione. Del resto, è proprio in quest’ottica che la LAV promuove dal 2021 la messa in atto di un “Patto per la convivenza tra uomo e orso” in Italia, lavorando insieme ad altre organizzazioni animaliste e avvalendosi anche del supporto di alcuni esperti canadesi.
In attesa del 27 giugno, non ci resta che sperare che, anche alla luce della progressiva evoluzione mondiale verso un modello di società sostenibile che consideri, nelle politiche di welfare, anche il benessere animale, le autorità giudiziarie si dimostrino sensibili alla questione ambientale che sta alla base della vicenda di JJ4, ristabilendo il giusto equilibrio nella convivenza fra essere umano e natura.
Equilibrio che, purtroppo, sembra essere troppo spesso tralasciato dalle autorità italiane nel momento in cui ci si confronta con tematiche ambientali o relative alla conservazione delle specie – si pensi, ad esempio, al lassismo della disciplina prevista dal nostro Paese in materia di caccia, piuttosto che alle recenti dichiarazioni di alcuni esponenti politici che, all’indomani del disastro in Emilia Romagna, hanno avanzato l’ipotesi di una responsabilità nell’accaduto di porcospini e nutrie, colpevoli di aver danneggiato il territorio emiliano con le proprie tane. C’è ancora molta strada da fare.
A cura di Costanza Rizzetto
Comments