Stiamo assistendo a quello che è un vero e proprio fenomeno di criminalizzazione della solidarietà di coloro che si mettono a disposizione delle persone migranti e richiedenti asilo ai confini territoriali dell'UE (ma non solo!). La criminalizzazione della solidarietà non è un atto sporadico, non ha fondamento fattuale, e non è una pratica appartenente ad un singolo Stato europeo, ma geograficamente diffusa e condivisa sul territorio UE. Questa pratica cerca di rappresentare, insieme ad altre policy migratorie come l’esternalizzazione delle frontiere, un deterrente sia per coloro che dedicano il proprio tempo al salvataggio di vite umane sia per chi inizia il viaggio nella speranza di una vita dignitosa. Tutto questo, ça va sans dire, in violazione del diritto internazionale.
Negli ultimi anni, infatti, nei Paesi che rappresentano il confine “esterno” del territorio comunitario (ma non solo, purtroppo!) hanno iniziato ad essere documentati atti di molestie e vessazioni, fino ad arrivare a procedimenti penali da parte delle autorità nazionali nei confronti di persone che partecipavano ad attività umanitarie (contribuendo direttamente allo sforzo che dovrebbe essere collettivo di salvare vite umane), tramite un uso distorto e abusivo delle normative esistenti. La criminalizzazione, quindi, è contro chi a tutti gli effetti si batte per i diritti umani del mondo occidentale.
Nel febbraio 2017, tre persone appartenenti a una troupe giornalistica, che stavano seguendo le rotte percorse dalle persone migranti al fine di produrre un documentario, hanno subito una condanna, per aver “facilitato l’entrata illegale” in Svezia di un ragazzo quindicenne siriano. Amnesty International, nel suo Report relativo alla criminalizzazione della solidarietà verso le persone migranti nel Nord della Francia, riporta che tra il 2017 e il 2018 molteplici volontari, tra gli altri, della ONG “L’Auberge des Migrants” che opera a Calais (dove era presente un campo per persone richiedenti asilo e rifugiate soprannominato “The Jungle”, la giungla per le condizioni inumane e degradanti in cui versava) sono state intimidite, molestate, minacciate e finanche arrestate e accusate di svariati reati, tra cui diffamazione di pubblici ufficiali per aver documentato sui propri account social gli abusi e le violenze perpetrati dalle autorità e polizia.
Un po’ in controtendenza, però, nel 2018, in una decisione storica, la Corte Costituzionale francese ha stabilito che il c.d. “reato di solidarietà” (délit de solidarité), che criminalizza una persona che faciliti l'ingresso irregolare, non deve essere imputato per qualsiasi atto fornito per scopi umanitari, osservando che la libertà di aiutare altri individui con uno scopo umanitario, senza tenere conto della legalità del loro soggiorno in Francia, può essere dedotta dal “principio costituzionale di fraternità”.
Dunque, il giudiziario ha espresso un approccio che va nella direzione del rispetto dei diritti umani, del diritto internazionale e nel riconoscimento dell’aiuto umanitario come azione di solidarietà tra gli esseri umani in situazioni più vulnerabili. Si prenda ad esempio non solo la summenzionata sentenza della Corte Costituzionale francese, ma anche la sentenza della Corte di Cassazione italiana (2020) sul noto caso di Carola Rackete in cui accettava l’argomentazione del gip di Agrigento secondo cui, nel rispetto del diritto internazionale, Rackete giustamente disattendeva l’ordine di divieto d’ingresso nelle acque nazionali con la Sea Watch 3. Nonostante ciò, i poteri esecutivi dei Paesi europei e, di conseguenza, le forze dell’ordine continuano a mantenere un approccio che si fa sempre più stringente nei confronti di coloro che offrono aiuto umanitario.
E infatti, su questa linea, lo scorso 10 gennaio è iniziato a Mitilene (Lesbo, Grecia) il processo penale contro ventiquattro fra operatori e operatrici umanitarie, tra cui Sarah Mardini (la cui storia e il cui viaggio insieme alla sorella Yusra, è stato raccontato nel film Netflix “The Swimmers”), Sean Binder and Nassos Karakitsos. Il procedimento a loro carico è iniziato nel 2018 quando sono arrestati e detenuti per un periodo di oltre cento giorni in attesa di giudizio e da cui sono usciti su cauzione. Sarah, Sean e Nassos hanno lavorato nel soccorso in mare per Emergency Response Center International (ERCI) tra il 2016 e il 2018, periodo in cui le persone salvate in mare sono state più di mille e il lavoro umanitario è stato cruciale. Le accuse a loro carico, tra le altre, sono state di contrabbando di persone, riciclaggio di denaro, spionaggio, frode e appartenenza ad un’organizzazione criminale. In caso di condanna, avrebbero dovuto scontare venticinque anni di carcere. Lo scorso 13 gennaio, però, dopo ben cinque anni di attesa, la Corte greca ha deciso di respingere le accuse e optare per il proscioglimento, soprattutto a causa di errori procedurali - tra cui la mancata traduzione nella madrelingua delle persone imputate delle summenzionate accuse. Tutto è bene quel che finisce bene? Certamente l’attenzione mediatica e le campagne di advocacy (tra cui la famosa “Free Humanitarians”) che si sono susseguite negli ultimi mesi hanno avuto un impatto importante sulla decisione finale, poiché hanno portato le autorità greche a dover riconoscere gli errori procedurali susseguitesi e, di conseguenza, il proscioglimento. Quello che è anche certo, però, è che questo esito non ha riconosciuto che la solidarietà, le azioni di salvataggio in mare, gli aiuti umanitari non siano un crimine.
Questa è una preoccupazione anche espressa dalla Relatrice Speciale per i difensori dei diritti umani dell’ONU: nel novembre 2021, infatti, in merito a questa vicenda Mary Lawlor ha dichiarato che “un verdetto di colpevolezza [...] creerebbe un pericoloso precedente di criminalizzazione delle persone che sostengono i diritti dei migranti e dei rifugiati in tutta la Grecia e nell'Unione Europea”. Ma non solo: la Relatrice Speciale ha anche affermato che tutto ciò “porterebbe a più morti in mare”. Questo perché il fenomeno della criminalizzazione della solidarietà e del supporto umanitario ha un c.d. chilling effect, ossia scoraggiare coloro che vorrebbero intraprendere questo tipo di azioni a fronte di una (velata o meno) minaccia di sanzioni.
Questi sono, però, solo alcuni dei casi mediaticamente più conosciuti. Secondo uno studio condotto da ReSOMA (Research Social Platform On Migration), infatti, solo fino al dicembre 2019, centosettantuno persone in tradici Paesi dell’EU sono state perseguite penalmente per le loro azioni umanitarie.
…Come sia possibile tutto questo?
Nel 2002, il Consiglio dell’UE adotta la c.d. Facilitation Directive, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali nel territorio comunitario. Ai sensi dell’art. 1 (1) (a), è passibile di sanzione “chiunque intenzionalmente aiuti una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa all'ingresso o al transito degli stranieri”, così definendo (seppur in modo vago) il reato di facilitazione dell'ingresso e del transito. Secondo l’art. 1 (1) (b), invece, integra il reato di facilitazione di soggiorno “chiunque intenzionalmente aiuti, a scopo di lucro, una persona che non sia cittadino di uno Stato membro a soggiornare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa al soggiorno degli stranieri.”. Questo sembrerebbe, dunque, il fondamento giuridico che “giustificherebbe” le azioni delle autorità degli Stati europei. Se non fosse che la legislazione in questione attribuisce agli Stati Membri la facoltà di esentare le azioni umanitarie dall’elenco dei reati (art. 1 (2)). Proprio richiamando questa disposizione, e rammaricandosi che pochi Stati Membri avessero incorporato l'esenzione per “assistenza umanitaria” nelle loro legislazioni (allo stato attuale, 9 Stati UE), il Parlamento Europeo nel 2018 ha adottato una risoluzione non vincolante in cui ha espresso preoccupazione sul fatto che le leggi dell’UE sull’aiuto alle persone migranti stiano avendo conseguenze indesiderate per coloro che forniscono loro assistenza umanitaria. Dopo quasi cinque anni, la situazione non è andata migliorando, e anzi, la solidarietà è sempre più spesso criminalizzata. E proprio lo scorso 18 gennaio, il Parlamento Europeo in seduta plenaria è ritornato sul tema e la Commissaria Johansson ha fermamente dichiarato che “l’assistenza umanitaria [...] non può e non deve essere criminalizzata”.
E cosa sta succedendo in Italia?
Dal canto suo, la posizione geografica del Bel Paese non gli consente di esimersi dall’essere, spesso, al centro dell’attenzione in riferimento a procedimenti, giudiziali e non, di criminalizzazione della solidarietà.
Spesso, tuttavia e per fortuna, i procedimenti penali aperti a carico di chiunque si prodighi per salvare vita nel Mediterraneo si concludono senza alcuna condanna. Seppur, quindi, vi è una tendenza almeno a tentare di condannare la solidarietà, perseguendo chi decida di occupare la propria vita per salvare la vita a chi parte alla volta del Mediterraneo alla ricerca di una nuova vita, più degna, sembra esserci, anche, una tendenza a riconoscere (seppur indirettamente) il valore sociale di chi si prodiga per salvare la vita altrui.
Vi è un caso, però, che non solo non sembra in procinto di chiudersi velocemente ma appare anche esemplificativo della volontà di voler, ad ogni costo, trovare il modo di processare la solidarietà. Ci riferiamo al noto caso IUVENTA (nave che ha salvato più di 14.000 vite nel Mediterraneo prima di trovarsi, per anni, ferma in porto, sotto sequestro), aperto a Trapani. Attualmente il procedimento penale a carico dell’equipaggio della IUVENTA si trova nella fase dell’udienza preliminare ma sembra procedere a rilento per una serie di “sfortunate coincidenze” fino a questo punto, quali i continui rinvii delle udienze per arrivare alla negazione, ai soggetti coinvolti, apolidi, di un traduttore adeguato. Queste hanno, ognuna per la sua parte, contribuito a creare un clima di estrema sfiducia nei confronti dell’amministrazione della giustizia. In particolare, preme evidenziare come il procedimento a carico dell’equipaggio della IUVENTA configuri un esempio di come la giustizia venga, spesso, esercitata con pesi e misure diverse in riferimento al soggetto che subisce il processo.
In tal senso, appare particolarmente significativo come, all’equipaggio della IUVENTA, sia stata negata la presenza di un traduttore adeguato per potergli permettere di seguire (e capire) il procedimento a proprio carico. Ancora una volta, quindi, il procedimento penale diventa non solo un mezzo per (cercare di) amministrare la giustizia ma uno strumento di emarginazione per le categorie più deboli (come quella degli apolidi). Il diniego di una traduzione adeguata del procedimento penale si risolve, evidentemente, in una negazione all’esercizio del diritto di difesa, il quale, per essere considerato tale, deve necessariamente risultare in una difesa che possa definirsi, per costante giurisprudenza convenzionale, pratica ed effettiva. Nel caso IUVENTA non vi è molto da indagare in riferimento all’effettività e praticità del diritto di difesa, essendo impedito, addirittura, il diritto alla traduzione.
Troppo spesso la giustizia sembra essere incapace di garantire lo stesso grado di tutela dei diritti a tutte le categorie di persone processate (Lino Pepino parla, non a caso, di una giustizia forte con i deboli ma debole con i forti) e tale tendenza sembra acuirsi nei procedimenti aperti, in Italia e in Europa, a carico - spesso - di volontari. Persone che dedicano il proprio tempo libero o, addirittura, la propria vita, a cercare di salvare vite, aiutando chi si trova ad affrontare uno dei viaggi più pericolosi possibili (la traversata del Mediterraneo).
A cura di Serena Zanirato e Carlotta Capizzi
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